Primo Levi – Fine del Marinese

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Luca Paolini

L’esperienza partigiana di Levi fu in effetti brevissima e poco soddisfacente. Sorpreso quasi nel sonno assieme a due compagni da oltre trecento soldati repubblichini la mattina del 13 dicembre 1943, Levi vide interrompersi la propria attività di sovversivo sul nascere, ad appena due mesi dall’occupazione tedesca, quando in pratica la lotta non era nemmeno cominciata. Nel corso degli interrogatori avrebbe ammesso di essere ebreo, sottraendosi in tal modo al carcere fascista per ritrovarsi catapultato nell’epicentro della tragedia novecentesca con la prigionia nel campo di concentramento di Fossoli prima, e la deportazione ad Auschwitz poi. La resistenza è associata, dunque, per Levi, a un fallimento bruciante.
Nei libri da lui pubblicati in vita troviamo solo qualche allusione a questa stagione acerba , e due capitoli ne Il sistema periodico: lo scrittore filtra l’esperienza partigiana attraverso l’esperienza limite del lager, e alla luce della sua formazione scientifica. Questo lo spinge a rifuggire da ogni tentazione di narrazione retorica puramente celebrativa.
Il breve periodo trascorso in montagna con Giustizia e Libertà è rimasto dunque sostanzialmente fuori dai suoi scritti. Esiste tuttavia un’eccezione: un breve racconto del 1949 che si ispira alla sua deludente esperienza di partigiano. Fine del marinese colpisce soprattutto per il punto di vista “impossibile” dal quale sono narrati gli eventi. Levi adotta, infatti, una prima persona plurale: a parlare sono i compagni di un partigiano catturato dai tedeschi, eppure questo noi è informato su tutti i movimenti dell’animo del prigioniero: la paralisi e lo sconforto, la rassegnazione e il desiderio di reagire, fino alla decisione di farsi saltare in aria con i nemici togliendo la sicura alla bomba a mano del soldato che gli sede distrattamente accanto.

S. T.

Levi – Fine del Marinese

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