KENT HARUF, Canto della pianura – Crepuscolo – Benedizione

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Preferito

Tre romanzi che possono essere letti anche svincolati gli uni dagli altri, seguendo l’ordine cronologico di scrittura o di pubblicazione o, ancora, immaginandoli ognuno come una storia a sé stante. Quale che sia la scelta, resta invariato il piacere di una lettura su più livelli, ricchissima di spunti, che incanta da un punto di vista tematico quanto strutturale: è il miracolo della letteratura, vivissima, l’uso sapiente della parola capace di rendere straordinarie vite comuni di quell’umanità piccola di un immaginario paese della profonda provincia americana.
Non ci si aspetti colpi di scena ad ogni pagina, stravaganze ed epici drammi: la grandezza di Haruf risiede tutta, come si accennava, nel potere della parola e del racconto di vite comuni rese straordinarie dalla letteratura e da quel sentire universale, che trascende il tempo e lo spazio. Nella fittizia comunità di Holt, lo scrittore crea la vita e la carica di bellezza, anche quando tragica e disperata, celebra l’uomo e i sentimenti comuni, quelle esistenze ordinarie in cui i giorni scorrono lenti scanditi dal lavoro, dalle stagioni, da felicità misurate; e il dramma, che qualche volta entra nelle vite di queste persone – a cui, inevitabilmente, ci si affeziona terribilmente – lascia sempre spazio, nonostante tutto, alla speranza, a quella fiducia nell’uomo e nei suoi istinti migliori che è, forse, il messaggio più bello di Haruf, quasi un atto di ribellione a quest’epoca di cinismo dilagante. 
Seguendo l’ordine cronologico di scrittura ( Canto della pianura, Crepuscolo ed infine Benedizione) ho osservato l’evoluzione dei personaggi, delle loro storie, ritrovato luoghi e vecchi amici; e ho seguito i mutamenti dello stile di Haruf, le scelte linguistiche e lessicali, dal periodo ampio, elegante, ricco, dei primi due volumi, alla concisione, le pause, i non detti, dell’ultimo romanzo, dove ogni parola sembra scolpita nel marmo. La parola è attenta, misurata, scelta con cura tanto per raccontare i sentimenti quanto nell’uso del linguaggio tecnico più specifico, in un lavoro di rifinitura che non è difficile immaginare e che ha impegnato notevolmente anche per la traduzione. È un viaggio nell’immaginazione e nella scrittura, storia e parola legate strettamente l’una all’altra come sempre più raramente sembra accadere.
Canto della pianura, il primo romanzo, è probabilmente quello che maggiormente colpisce, per trama e scrittura: nelle voci alternate di una manciata di personaggi, Haruf crea un microcosmo di uomini e donne – poche, ahimè, ma fondamentali – , i loro drammi, i sogni e le speranze – ancora una volta semplici, misurate – , passioni e solitudini quotidiane. Senza eccedere nel desiderio di rappresentare ad ogni costo ogni cosa, ogni sfumatura, nella deriva del romanzo-mondo che sembra attirare fin troppi scrittori in questi ultimi anni , Haruf sceglie il dettaglio, il frammento, circoscrive le storie lasciando al lettore lo sforzo di immaginare ciò che resta sotto la superficie, interpretare i silenzi e le pause, lo spazio infinito oltre la pagina, quasi fosse una lunga short story.
Canto della pianura è un inno alla vita, dei tre il romanzo più carico di speranza e fiducia nelle possibilità, anche nei piccoli, grandi, drammi quotidiani. È racconto della vita di provincia, di una piccola comunità capace di accogliere ma anche di escludere con pari intensità, di luoghi fuori dal tempo e persone semplici, ritmi e gesti che si ripetono regolari: la provincia americana bellissima e crudele, che per qualcuno significa casa ed affetti, per altri è quasi soffocamento, una solitudine che non dà scampo. Ed è, soprattutto, riflessione sui rapporti famigliari, laddove famiglia non è determinata solo dal sangue, è canto della vita che inizia – nella venuta al mondo, nelle nuove strade da prendere, nei cambiamenti necessari – e sorprende: di una sedicenne incinta, ripudiata dalla madre, senza un posto dove stare né qualcuno che si prenda cura di lei, che trova rifugio, casa, famiglia, nella più improbabile delle situazioni. Due vecchi fratelli, allevatori di bestiame, solitari e taciturni, che d’istinto accolgono quella ragazzina in difficoltà: lentamente si conoscono, per mezzo di pochissime parole e gesti misurati, mettendo in discussione tutto quello che è stata la vita fino a quel momento. Nel legame che si crea tra Victoria e i fratelli Mc Pheron, non privo di difficoltà ed incomprensioni, c’è la vita e il romanzo tutto. Non vorresti lasciarli mai quei due vecchi fratelli, dapprima quasi indistinguibili l’uno dall’altro, poi sempre più reali, complessi, umani. Due vite da sempre intrecciate, scandite dal duro lavoro, da ritmi e abitudini da tempo consolidate, in quella vecchia casa solitaria in mezzo alla pianura: ogni giorno più o meno identico a quello precedente tra gioie misurate, lavoro, fatica, pensieri semplici. Finchè non arriva Victoria a sconvolgere ogni cosa e a darle un senso. 
Quella ragazza ha bisogno di qualcuno e sono pronta a fare qualsiasi cosa. Ha bisogno di una casa per questi mesi. E anche voi – sorrise – dannati vecchi solitari, avete bisogno di qualcuno. Qualcuno o qualcosa di cui prendervi cura, per cui preoccuparvi, oltre a una vecchia vacca fulva. C’è troppa solitudine qui. Prima o poi morirete senza aver avuto neppure un problema in vita vostra. Non del tipo giusto, comunque. Questa è la vostra occasione. 
Il legame fortissimo che si crea tra i due vecchi fratelli e quella ragazzina nei guai è il cuore del romanzo, quello che sconvolge tutto e a tutto dà un nuovo significato, che costringe il lettore ad abbassare le difese e lasciarsi catturare dal mondo di Haruf. Si studiano, si osservano timidamente, si muovono in punta di piedi e un poco alla volta si avvicinano, si riconoscono e aprono alle possibilità della vita, agli affetti inaspettati. Non sarà un percorso facile, immediato o privo di incertezze, ma è la vita e Haruf la infonde di speranza e umanità, a tratti di inaspettata comicità. Una storia di contrasti, come lo è la trilogia tutta: la vita di uomini come tanti, in quella piccola comunità da qualche parte in Colorado, insignificante nel confronto col mondo, e quegli spazi sconfinati, la natura maestosa che Haruf carica di poesia struggente. L’attenzione per il dettaglio e la parola che di volta in volta sa farsi lirica nella descrizione della luce dorata che illumina la polvere sollevata da un furgone, o estremamente cruda e diretta nel rappresentare la realtà dell’allevamento. La cernita delle mucche gravide, il difficile parto della vacca, l’abbattimento del cavallo, sono le tre scene più violente, descritte con dovizia di particolari, ma anche nella brutalità Haruf riesce a cogliere poesia e bellezza, vita, insomma. La stessa che, sussurrata, fa da contraltare a quelle scene, in una narrazione per contrasti. Luce ed ombra, silenzio e rumori, brutalità ed umana grazia, in una ricchezza linguistica sorprendente. 
Se Canto della pianura è un inno alla vita, alle sue possibilità, carico di speranza, Crepuscolo rappresenta la crescita, il cambiamento, l’imprevedibilità della vita. E, qualche volta, è sofferenza. Ci sono in questo secondo romanzo le pagine, a mio avviso, più struggenti dell’intera trilogia, istanti di un’intensità emozionale che si fa quasi dolore fisico. Momenti della storia in cui le parole non bastano ad esprimere l’intensità del dolore, come non erano sufficienti o adeguate a dare voce alla profonda gratitudine, all’affetto nato tanto inaspettatamente:
Stava cercando di trovare parole che potessero servire a qualcosa, ma nelle lingue che conosceva non ce n’erano di adeguate al momento o capaci di cambiare minimamente la situazione. Rimasero in silenzio per un po’. 
Il silenzio che si fa carico di significati inespressi, i gesti ridotti al minimo nel terrore che tutto cambi, che sfugga al controllo distruggendo una perfetta felicità. 
Era come se non prendesse neppure in considerazione la possibilità di muoversi, come se pensasse che restando accanto al suo letto, evitando di muoversi, potesse impedire che succedesse qualcos’altro, a lui o a qualsiasi altra persona al mondo a cui voleva bene. 
Eppure, ancora, è un canto di speranza, di fiducia nell’umanità anche quando sembra impossibile trovare bellezza, bontà. Ritroviamo alcuni vecchi amici di Holt, alle prese con nuove sfide e cambiamenti che spaventano. C’è voluto del tempo, qualche incertezza e sbaglio, ma quei vecchi solitari e la ragazza che hanno accolto in casa propria sono diventati una famiglia, legati da un affetto sincero che va oltre il sangue, le parole, la paura dei cambiamenti:
Un po’ alla volta si erano abituati a quelle nuove presenze nelle loro vite. I mutamenti erano diventati consuetudini che apprezzavano al punto da desiderare che continuassero allo stesso modo giorno dopo giorno. Perché cominciavano a percepire che ogni giorno sarebbe stato un buon giorno, come se il nuovo stato di cose fosse stato quello che avevano sempre desiderato, pur non avendolo mai pensato o previsto in alcun modo. 
Vorresti che nulla cambiasse per paura di turbare quella piccola, perfetta, felicità. Ma il secondo volume della trilogia di Haruf si arricchisce anche di nuovi personaggi, con il loro carico di emozioni e dolori.
La famiglia è, ancora, il cuore della storia, quella che non ci si aspetta, con il suo carico di difficoltà e solitudini, ma anche di legami assoluti, nonostante tutto. Ecco, solitudini, un sentimento che sembra percorrere tutti e tre i romanzi, in forme differenti, un fantasma che aleggia sulla storia e fa paura: c’è l’anziana rimasta sola in una casa ingombra di oggetti, il marito abbandonato dalla moglie che fa i conti con due figli da crescere e nuove relazioni, i due vecchi fratelli che da sempre vivono al limite (della contea, della vita stessa); il ragazzino cresciuto dal nonno, le due bambine costrette a fare i conti col padre assente e una madre incapace di prendersi cura di loro, la mamma single con la sua nuova vita all’università; fino all’ultimo romanzo, in cui la solitudine diviene quasi insopportabile, ricordi di vecchie ferite ed incomprensioni e una vita che non è andata esattamente come ci si sarebbe aspettati.
In Crepuscolo, si diceva, ci sono anche le pagine più sofferte, quelle che commuovono immensamente: la perdita, il lutto, la distanza, raccontate con grazia assoluta. Ancora, il mondo piccolo degli uomini che si confronta con l’infinità del cielo, dei paesaggi sconfinati, della vita che nonostante tutto va avanti, i cicli della natura, i doveri di ogni giorno, i sussulti del cuore.
La brutalità entra ancora una volta in scena ma diventa orrore, mentre Haruf porta sulla pagina per la prima volta la malvagità più imperdonabile.
Anche in questo secondo, doloroso romanzo, c’è spazio comunque per la speranza, per la bellezza: della natura struggente, della vita che sa trovare da sé il proprio corso, del cambiamento che porta a nuove, inattese felicità, della crescita, dell’amicizia. Della fiducia nell’uomo, del bisogno di essere comunità, un sentimento quest’ultimo che mi ha ricordato così vividamente le riflessioni di K. Vonnegut sul ruolo fondamentale della coesione tra persone. 
E, forse, è proprio in Benedizione, infine, che la comunità di Holt si rivela in tutta la sua forza, stringendosi intorno a quel vecchio al termine della vita e alla sua famiglia sofferente, in una narrazione ancora una volta costruita per contrasti: vecchiaia e gioventù, famiglia e solitudini, presente e passato, luci ed ombre. È il romanzo più cupo, nel confronto con la morte e il rimpianto per tutte le mancanze, i segreti, le distanze ormai incolmabili. Le occasioni mancate, la felicità solo sfiorata, le partenze e i ritorni.
Ma, ancora una volta, l’ultima, la speranza: perché forse non esiste un perfetto happy ending e alcune colpe sono impossibili da cancellare, ma è necessario credere nella straordinaria bellezza della banalità della vita.

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