I giovani e la scrittura

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Intervento di Sandra Tassi al MEMO MODENA
Giovedì, 20 Ottobre 2016

 

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Cristina [della Polizia di Bologna] chiese ad Ilaria di raccontarle la storia della serata trascorsa e di come fosse finita sdraiata su una panchina.
Non reagi con sorpresa, dava l’impressione di sentire ogni giorno storie simili.

Dopo aver letto il libro di Andrea De Carlo è possibile che tutti noi finiamo per commentare allo stesso modo di Cristina; e, prima del libro, probabilmente questa è stata una reazione ripetuta davanti a casi di cronaca: una ragazza che compromette la vita a causa della droga.
In effetti, storie simili se ne sentono ogni giorno, forse per questo ci hanno indotto ad una certa superficialità di ricezione, se non addirittura indifferenza.
Storie che non sono la mia, riprendendo il titolo di un recente romanzo del francese Carrere.
Anche noi può succedere, succede; anche a noi che siamo educatori, genitori, docenti.
Ma se troviamo ancora scritto, e scritto da un ragazzo di 17 anni, che “NON REAGIAMO PIÙ CON SORPRESA, forse ci dobbiamo mettere all’erta: quali e quante “esperienze giovanili” sono ROUTINE? Esiste anche una “moda” nella cronaca quotidiana, tanto che alcuni eventi “fanno notizia” solo quando hanno molta audience?
Esiste anche una “moda” – intesa come prassi nell’accezione negativa del termine – nella gestione della didattica scolastica ?
Grazie al romanzo di Andrea abbiamo oggi, qui, per così dire, l’opportunità di ripassare un manuale di pedagogia, cioè di ritrovarci a ragionare sul termine EDUCAZIONE (in senso ampio) e quindi sulla relazione FAMIGLIA/SCUOLA/ SOCIETÀ/GRUPPO DEI PARI; sul rapporto dialettico tra FORMAZIONE e INFORMAZIONE; sul termine COMUNICAZIONE; sul rapporto tra PEDAGOGIA (intesa come scelta educativa) e PSICOLOGIA (intesa come avvicinamento a ciò che i ragazzi sono e non a ciò che dovrebbero essere).
Questioni, appunto, che compaiono ripetutamente nella storia della pedagogia.
Sotto l’aspetto più circostanziato della psicologia, poi, possiamo nuovamente chiederci che significato assegniamo veramente a espressioni ormai consolidate (tutte sottese alla narrazione, in Bianca Neve): PIACERE/BISOGNO DELLA TRASGRESSIONE; AUTOSTIMA; BISOGNI AFFETTIVI; EMOZIONI.
E, in aggiunta,vista la giovane età dell’autore, abbiamo anche l’opportunità di riflettere sul significato che può avere la scrittura per un adolescente, sul bisogno e sulla necessità di scrivere.
È da qui che vorrei sviluppare quanto ho anticipato nella premessa.
Partiamo da un dato biografico: Andrea frequenta il mondo della scrittura attraverso la cronaca giornalistica, sportiva.
Ebbene, in ogni “genere letterario” (cronaca giornalistica, autobiografia, romanzo) scrivere è INDAGINE, è rapporto tra CURIOSITÀ e RIFLESSIONE.
La protagonista del libro, Ilaria, sta per comprenderlo: il desiderio di possedere un diario è la premessa a questa scoperta: per prima cosa la scrittura è CURIOSITÀ e RIFLESSIONE verso e su se stessi.

Una fugace rilettura dei compiti per il giorno successivo e infine, grazie al cielo, si arriva all’atto conclusivo della giornata: il diario. (…)

Una volta aperto il diario e segnata la data, l’impresa davvero difficile è sempre scrivere almeno una pagina riassuntiva delle emozioni della giornata. Il problema non sta nella forma (tanto chi vuoi che legga la mie scemenze?) ma nel contenuto: di emozioni da descrivere non ce ne sono quasi mai, o perlomeno non di positive, e a dire il vero nemmeno questa volta fa eccezione. Tutti i giorni combatto soprattutto con la frase di apertura della pagina.

Caro Diario …”No, è un inizio troppo da bambina!

Questa mattina sono andata a scuola…” Ilaria, ma cosa scrivi? Ovvio che sei andata a scuola, è tuo dovere! La rabbia sale.

Caro Diario, oggi mi sento bene.” Ecco, questo vorrei scrivere, senza badare alla forma. Il “bene” però è una conseguenza del fare ciò che piace, e io non lo faccio. Di essere spensierata, e io non lo sono. Di avere (nella migliore delle ipotesi) un ragazzo al proprio fianco che ti ami e regali fiori, a cui fare immediatamente foto da sbandierare ai quattro venti per mandare il collera le amiche, e io non ce l’ho.

Il nulla e la monotonia segnano la mia vita con un pennarello che finora sembra proprio essere indelebile.

Forse ciò che mi manca di più è l’affetto, comunque un sincero “ti voglio bene” (…)

La colpa è del nulla e della monotonia. Siamo sempre lì, e non se ne esce. E io mi ritrovo alla fine della giornata con il diario chiuso davanti ai miei occhi, a sperare che nella mia vita cambi solo una cosa: tutto.

Dice Ilaria di voler vedere i PROPRI PENSIERI “SCRITTI“. Ma la cronaca quotidiana non la soddisfa, e questo – noi lo sappiamo – è il passo naturale verso LA SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA .

Il romanzo evidenzia la maturazione di Ilaria nella prospettiva della consapevolezza del rapporto tra sé e il mondo, la maturazione che scaturisce dagli “errori” e dalla riflessione sui propri comportamenti e su quelli altrui: gli atteggiamenti deludenti del suo ragazzo e della sorella, il “tradimento” dei suoi migliori amici, l’antagonismo con la sorella”, la freddezza dei genitori.
Lo evidenzia anche nella sua struttura: nella parte iniziale è prevalente la voce di Ilaria (sottolineata dall’uso del corsivo); nella parte centrale e in quella conclusiva prevale, invece, la voce di chi è vicino a Ilaria, la osserva fa attenzione ad ogni passo nell’avventura, rischiosa, dell’accostamento e della tentazione degli stupefacenti.
Un interessante intercalare è poi costituito dalle pagine prettamente (freddamente) informative, su tipi di droga, su i suoi effetti, sui termini utilizzati da chi la spaccia e/o ne fa uso.
È una sezione importante.

Ma che ne sanno quelli, eh? Cosa pretendono di conoscere? Loro, che non prendevano le famose caramelle dagli sconosciuti perché mamma non voleva. Loro, che rientravano a casa mezzora prima dell’orario concordato per paura di essere sgridati. Hanno passato anni a dirci che la cocaina fa male, cambia, logora e uccide, addirittura…
Tutte queste convinzioni senza manco averla provata una volta, così, almeno per capire se i loro preconcetti avessero un minimo di fondamento o fossero nient’altro che aria fritta. Sapete perché gli adulti ci stritolano le palle di raccomandazioni, tipo “attenti al lupo” senza aver mai tirato?
Perché hanno paura. Si, hanno paura di sbagliarsi, di veder crollare decenni di false certezze tramandate di generazione in generazione. Siamo sempre lì: passa il tempo, ma la storia rimane la stessa. Non ci si evolve per paura. È solo quella che frena l’uomo.
La paura.

Dunque, e questo è certamente il messaggio di Andrea, la paura verso un fenomeno di cui si conoscono gli esiti devastanti finisce per impedire una conoscenza profonda. È un buco nero che si sa esiste ma entro il quale non ci si azzarda ad entrare: tutti “credono” o “dicono” di saperne abbastanza pur di non occuparsene.
Paura e disinformazione, dunque, resta un binomio ancora inossidabile.
Riprendendo quanto ho detto in apertura, Andrea – uno studente di un liceo della nostra città – sostiene che se la famiglia tende a scansare il problema, se gli amici ti presentano solo il momentaneo piacere della fuga dal presente (il presente della “noia”), la scuola gioca un ruolo ambiguo: apparentemente si occupa di quello che definisce un “problema giovanile” istituendo sì occasioni di informazione, ma secondo il modello della «lezione» scolastica.

«allora, ragazzi, oggi parleremo di qualcosa di diverso rispetto al ‘700, ma non per questo meno importante. Tra un mese esatto si terrà la giornata mondiale contro le droghe e il narcotraffico. Un mio amico poliziotto si è offerto di parlare in nostra compagnia degli stupefacenti e del mondo disagiato dello spaccio. Argomenti del genere vi riguardano da vicino, siete grandi e dovete fare i conti anche con queste realtà» (…)

«Buongiorno, ragazzi!» ha esordito «non sono qui oggi per farvi la solita predica. So bene che a questa età siete sicuramente già entrati in contatto con sostanze, per cui il mio unico obiettivo è semplicemente quello di parlarvi di quanto questi maledetti intrugli siano nocivi sia a voi, sia a chi vi sta attorno.» (…)

Sembrava che lo sbirro volesse spiegarci bene come funziona, senza fare i soliti discorsi moralistici tipici della sua categoria.

Mi sbagliavo. (…)

L’agente ha continuato a parlare, parlare e parlare. Captavo a tratti qualche frase : «La polvere bianca uccide, se entri non ti tiri fuori…» poi ancora «Il rischio di dipendenza è altissimo, ragazzi: provate una volta e ci rimarrete per sempre».

Le solite cose, dunque.

Quanto ci viene detto da Ilaria (o da Andrea attraverso di lei) non è soltanto che – probabilmente – la scuola ancora non ha una strategia vincente (informazione soltanto?), ma soprattutto che i ragazzi che ascoltano, in realtà, spesso non lo fanno: i problemi contingenti, personali, intimi, affettivo-emotivi, spesso distolgono l’attenzione di uno studente sia da un contenuto scolastico, sia da un incontro che si presenta come “scolastico”.
Ho appena parlato di “problemi contingenti”: micro-problemi per gli adulti, prioritari per i giovani.
E allora torniamo alla pedagogia e alla psicologia.
Andiamoli a riprendere, quei termini che ho prima elencato, e ci sono noti, ci paiono ovvi.

Nei primi mesi in quel nuovo quartiere non mi spinsi da sola più in là del prato con le porte: mi era stato detto di non farlo e non lo facevo. Nel passaggio dalle medie al liceo, però, ogni divieto si trasformò magicamente in un inspiegabile ostacolo che andava raggiunto e superato in ogni modo. Superfluo aggiungere che nel giro di poco uscii dal recinto per andare a “brucare” altrove, esplorando mete meno raccomandabili, dal sapore di evasione. Stiamo parlando di attraversare, al limite di corsa, il ponte sul fiume distante non più di duecento metri da casa mia, ma per trasgredire e sentirsi fuorilegge bastava così poco, all’epoca…

La scelta narrativa di Andrea, è di mettere Ilaria di fronte alla fuga due volte: non solo come tensione ad andare oltre – lo abbiamo appena sentito nella metafora ben riuscita del «prato con le porte» – nella prima adolescenza, ma anche più tardi, quando ha già conosciuto la droga che uccide. La fuga per scappare da un mondo che non l’aiuta a tornare indietro, la prima, quando vorrebbe redimersi; e la fuga consapevole – tanto da apparire una scelta – la seconda, perché non voleva più porsi freni: avrebbe vissuto alla grande la sua adolescenza.

Le venne in mente di usare la coca…

Non prima di lasciare una pagina scritta per dare forma a quell’idea : ricopia la poesia L’albatro di Charles Baudelaire.